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ROCCA DI PAPA, 1920: GIOCHI DI BAMBINI

Con la sera, quando tutti erano tornati dal lavoro, giungevano le ore dei giochi spensierati. Bambini e ragazzetti, qualcuno scalzo, occupavano ogni largo delle strade e vi restavano fino a tardi, anche nel buio e nel freddo, e i familiari si sgolavano per richiamarli in casa.

Talora maschi e femmine giocavano insieme, talora in gruppi distinti... A 'nguattarella (nascondino), a gatta cèca (mosca cieca), a 'cchiapparella (ad acchiapparsi), a campana 'e zoffiéttu (la classica campana che tracciavano sui selci col gesso o nelle strade sterrate con un legnetto), a guardie e fuoriusciti (guardie e ladri), alla guerra francese (i componenti di sue squadre si acchiappavano, facevano prigionieri...) e a Barba Girolamo maschi e femmine giocavano insieme.

Barba Girolamo era una variante della 'cchiapparella. Un ragazzo saltellando su un piede - all'inizio doveva avvertire che iniziava la caccia: "Esce Barba Girolamo! - cercava di afferrare i compagni che invece correvano e camminavano normalmente e spesso lo schernivano:

'U zuoppu 'ncora no' mmè

èssolu, èssolu che mo vè.

(Lo zoppo ancora non viene,

eccolo, eccolo che ora viene).

Anche nel gioco Moressi, moressi, che per un periodo è andato molto in voga - i giochi naturalmente si variavano e si inventavano - si trattava di acchiapparsi. Il conduttore del gioco teneva in mano un fazzoletto con un nodo; chi indovinava l'animale o la pianta, di cui egli aveva parlato senza dirne il nome, prendeva il fazzoletto e faceva l'atto di picchiare i compagni e le compagne che scappavano, gridando: "Moressi, moressi, p'a via te sfrocessi" (che tu muoia, che tu cada rovinosamente per la via).

I maschi per proprio conto giocavano co' 'u zurariellu (la trottola), a saltacapra (la cavallina), a mìtule (piastrelle), a lippe per la via del Tufo (si trattava di far saltare il più lontano possibile un legnetto appuntito alle estremità, battendolo con un bastone), a palline con le biglie o con i noccioli delle ciliegie, 'e tippitine, dicendo, chini sulla strada: "Zibidì, zibidè, 'n buca c'è!"; facevano 'a sciurarèlla, scivolando lungo i muretti - le madri li richiamavano sempre perché ci si rompevano i calzoni - e sul ghiaccio, col piano delle sedie rotte; si costruivano specie di bassi carrettini di legno, 'e cariole, e con queste venivano giù di gran carriera per tutte le strade in discesa, arrivando persino a Squarciarelli. 'E cariole avevano la forma di un trapezio allungato, alto una ventina di centimetri e lungo oltre un metro; per volante, un pezzo di cordicella. I bambini ci si accoccolavano sopra, quasi sempre in due, uno davanti e uno dietro. A volte le ruote di legno - sostituite dopo il 1930 dai cuscinetti a sfera dei camion - si arroventavano, cominciavano a fumare, anche se erano state ben ingrassate con la sugna. Nell'emergenza l'unico rimedio era innaffiarle con uno zampillo di pipì. "Frena, frena...! Pisciai sopre...!"

Per i più grandicelli, però, le belle discese con le cariòle terminavano spesso con una fatica: se ne servivano per caricarle di legna, in particolare di ciòcche (pezzi di ceppaie secche) e si sudavano il ritorno in paese.

Le bambine, oltre che nei giochi già ricordati, erano occupate a fa' a cénciari, gioco simile alle mitule dei maschi, ma con un tocco di gentilezza in più, essendo i cénciari pezzetti di piatti su cui erano stampati fiorellini, oppure usavano i bottoni, strappati con gran disperazione delle madri ai grembiuli e alle federe; i più pregiati erano quelli di osso detti majòzze. Bottoni e bajoccò, monete da due soldi, venivano a volte lanciati contro un muro o contro le porte delle cantine: si giocava a battimuro.

Le ragazzine saltavano interminabili gare con la corda e le più piccole giocavano con le bambole, che erano rare e di stoffa. ("... Facevano il corpicino di pezza e poi lo riempivano di segatura. Con la matita gli segnavano gli occhi e la bocca e, per capelli, i capelli dei tòtari (le pannocchie di mais, ndr), quelli più fini; capavano i migliori e glieli cucivano in testa. Quando ero piccola si adoperavano anche le fasce dei bambini, tutte 'rrotolate; mettevano sopra una pezza e l'adoperavano per bambole o si arrotolava un pezzo di stoffa intorno a un sasso - Rocca era piena di sassi! - Ognuna si faceva 'a fia sea...").

Sempre tanti i girotondi, a cui partecipavano volentieri i bambini più piccoli:

Casca 'n melu fràcicu,

casca 'n groppa 'e l'asinu,

l'asinu strilléa:

Ahio, ahio 'a groppa méa!


O Maria Giulia, donde sei venuta,

alza gli occhi al cielo,

fai un salto,

fanne un'altra,

fai la riverenza,

alza il cappelletto,

e... dai un bacio a chi l'ha detto.

 

Al castello del mio bello

c'è 'na persona della vita mia

la più bella che ci sia

me la voglio portà via.

Quest'ultimo girotondo richiedeva un numero disparo di partecipanti perché all'ultimo verso si formavano delle coppie. Chi restava solo, doveva sostare al centro del circolo e sentirsi ripetere: "In mezzo al nostro circolo è natu 'n brocculu, 'n brocculu. Bròcculu che sì tu!"...

Ancora tipico delle femmine era fa' a pàppari, un esercizio di abilità che consisteva nel far saltare sulle dita delle pietruzze rotonde, a volte in numero di cinque, a volte di tre; si rendevano levigate strofinandole a lungo sui selci bagnati. C'erano anche i pàppari 'ndricchi, ma questi ultimi dovevano essere più grossi e allungati e sempre in numero di cinque (i sassolini della ghiaia). I pàppari, sia semplici che 'ndricchi, avevano bisogno per saltellare sulle dita del ritmo di una numerazione o di quello di brevi filastrocche. Le bambine sedevano si gradini di casa e, leste leste, eseguivano il consueto girocolìo:

Leru, leru,

'u carciofuli à messu lu pelu

e l'à messu de vantaggiu:

fore aprile e drento maggiu.

(il carciofo ha messo il pelo e l'ha messo di vantaggio: fuori aprile e dentro maggio).

 

Zécca, zécca, se vuò zeccà

Ché  maritimu no' mmi sta,

ce cocemo 'na pila 'e facioli

e ce jamo a colecà.

(sali, sali se vuoi salire, ché mio marito non c'è, ci cuociamo una pentola di fagioli e ce ne andiamo a letto).

Nelle ventose giornate di primavera i bambini costruivano 'e commedie (gli aquiloni) con pezzetti di canna e carta velina di vari colori, mentre le sorelle aiutavano, preparando la colla con acqua e farina. E quasi regolarmente rubavano il filo di rocchetto o la matassa di cotone alle madri. Al momento del lancio, per solito ai Campi di Annibale, sempre nuova era l'emozione di vedere la propria commedia librarsi nell'aria. ("... Era 'na gioia...! Tutti a strillà: U miu va più artu! Quello mio va de più pe' aria...! Insomma era 'na gioia, 'na gara, perché tutti cercavano di mandarlo più in alto possibile e delle volte, quando che si rompeva, cominciavi a piangere perché non c'erano i soldi pe' rifallo...").

 

Maria Pia Santangeli, Rocca di Papa al tempo della crespigna e dei sugamèle - Edilazio

 

 


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